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Intervista con gli Ozone Park

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view post Posted on 24/1/2018, 17:01
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Intervista con gli Ozone Park

“Fusion Rebirth”, è il primo disco del quartetto Ozone Park, pubblicato nel settembre del 2017 dall’etichetta Emme Record Label. La formazione è composta da quattro talentuosi musicisti sardi quali Giuseppe Chironi (piano, E-bass, Clavi, Organs, Rhodes, Synyhetizers), Alessandro Masala (Drums), Davide Nicola Buzzo (Saxophone & EWI), Gianluca Cossu (Congas, Timbales, Vibraphone). Ecco l’intervista gentilmente rilasciata…

La fusion, come potrebbe far pensare anche il titolo, è un po’ alla base del vostro album, “Fusion Rebirth”?
Il nostro è un disco che si definirebbe Fusion. Il termine è poi in realtà banalmente una indicazione di massima che andrebbe interpretata come “un genere dove c’è Jazz e qualcos’altro”. Esiste poi anche la musica progressive, che potrebbe dirsi sempre fusion, ma di origini europee, con commistioni diverse, a volte elettroniche ed altre rock. Sempre di Fusion si tratta, ma cono sonorità più rare oltreoceano. Oggi comunque la globalizzazione della musica ha creato una miriade di sottogeneri anche in questo settore, e la fusion contiene sempre jazz, come ingrediente di base, ma con mille sfumature alternative e possibilità infinite di inserti di altri generi musicali.

C’è un tratto comune che lega i pezzi dell’album?
L’album si può definire più tipicamente americano nelle prime due tracce, e più progressive nelle successive. Non è però marcatamente definibile se non in modo universale e generico, perché è davvero un minestrone di generi apparentemente eterogenei, ma il cui intreccio è stato studiato e voluto in fase compositiva, con maniacale ricerca di precisione nel disordine apparente.



Quella di oggi appare come una società sempre più individualista… Nella musica le cose stanno un po’ diversamente? C’è voglia di collaborare tra artisti?
Il problema della musica non sono gli artisti, che si, sono sempre un po’ narcisisti e pigmalioni ma volentieri collaborano e si nutrono l’uno dell’estro dell’altro, ma di chi la musica la diffonde, la finanzia, la sceglie. Chi produce, spesso lo fa solo alla ricerca del denaro a discapito del gusto. I giovani vengono allevati come polli in batteria e in radio passa sempre lo stesso mangime. Ci sono però eccezioni, sia negli ascoltatori che nei produttori, ma sono rare. E non è vero che l’ascoltatore vuole solo musica commerciale. Semplicemente non gli viene mostrato altro. La commerciale costa poco, rende molto. L’immagine vince sulla qualità. Sono infatti sempre più rari gli artisti Pop brutti. Negli anni 70 e 80 erano moltissimi. Questo dovrebbe far riflettere.

Quando finisce un album, spesso rimane fuori qualcosa. E’ successo anche a voi?
Nel nostro caso lo risuoneremmo domani per suonarlo meglio, per aggiungere particolari che giornalmente ci vengono in mente. Oggi i nuovi pezzi sono estremamente più complessi ed elaborati. Ma è il primo album ed è spontaneo e genuino, ciò che in fondo volevamo trasmettere. Se potessimo metterci dentro qualcosa oggi, forse saremmo più sfacciati nei cambi ritmo.

E’ stato difficile trovare chi credesse nella vostra musica?
No, paradossalmente. Negli Stati Uniti, dove abbiamo iniziato, ci hanno fatto enormi complimenti e spinto a fare questo disco. In Italia, la splendida produzione di Emme Record Label, ha accettato subito la scommessa. Chi ascolta il cd crede nella nostra musica. Lavoreremo per farlo ascoltare il più possibile e dovunque sia possibile.

Cosa vi piace e cosa meno dell’ambiente discografico?
Nessuno lavora per la patria ed è chiaro che quindi un profitto debba esserci per chi investe su un artista. E’ però fondamentale che gli artisti tornino al centro della produzione, poiché loro sono la fonte di questo profitto. Attualmente la musica ha canali nuovi, dove tutti attingono e pochi spendono. E’ diventata industriale, meccanica. Questo va a discapito della qualità. I nuovi media rappresentano una grande opportunità.



Fare musica spesso è considerato come una necessità?
Nel nostro caso è un bisogno primario. Personalmente, suono da quando avevo 6 anni, lo ritengo l’unico modo valido per mettermi in contatto diretto con l’universo. La musica mi ha aiutato nel dolore, mi ha commosso, mi ha fatto crescere, mi ha fatto capire che c’è un ordine naturale nelle cose. Solo l’amore da sensazioni simili. Potrei vivere senza una lira ma mai senza amore e musica.

Oggi, vedete molti giovani di talento attorno a voi?
Nel Jazz moltissimi, nella Progressive pochissimi (è un genere che va fatto conoscere meglio). Tutti si dedicano alla musica leggera, ricercando spesso il protagonismo solitario in esibizioni canore individualiste. Il musicista in quei contesti è solo un servo al servizio del solista. I gruppi musicali in ambito commerciale sembrano più progetti di marketing che spontanee associazioni artistiche. CI auguriamo che prima o poi avvenga un cambiamento dal basso.

Che importanza riveste oggi l’immagine per chi fa musica?
In un mondo commerciale come quello che ho descritto l’immagine è più importante del contenuto. Lo vediamo quotidianamente, dovunque. Il consumismo ha fatto la sua parte in questo. Chi gestisce arte e comunicazione dovrebbe assumersi la responsabilità di iniziare a parlare di sostanza.

Alcuni artisti, nel far nascere le loro canzoni, si ispirano anche a libri letti o film visti. E’ successo anche a voi?
Si. In particolare in Kimberly Dreams, ci ricordiamo quei filmetti polizieschi o erotici anni 70 americani. In generale il tuffo è negli anni 70 e le influenze sono quelle.

Per chiudere, quali le canzoni e gli artisti che più vi hanno fatto desiderare di fare musica attivamente?
Suoniamo tutti da decenni, tranne il nostro giovanissimo Gianluca, che pur essendo quello musicalmente parlando più alfabetizzato di tutti (è un diplomando del Conservatorio) è anche un Under 25. Tutti siamo vissuti e cresciuti, tra gli altri, con artisti come Frank Zappa, gli Weather Report, gli Area, i Perigeo, ma anche gli Yellow Jackets, Michel Petrucciani, Michel Camilo, i Dream Theather, i Gentle Giant e tanti altri. Nel mio caso salverei dal precipizio gli Area, Paolo Conte, i Goblin, gli Snarky Puppy e gli Etna, un gruppo sconosciuto che ha fatto un solo disco a metà degli anni 70, che considero il miglior disco Progressive della storia della musica.
 
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